martedì 8 marzo 2011

I vagabondi del Dharma di Jack Kerouac

America, anni 40. Un ragazzino di splendidissime speranze , figlio di una famiglia di rigida osservanza cattolica, si iscrive alla Columbia University, ma qualcosa non va come dovrebbe andare.
Inizia a frequentare gente strana, e’ una promessa del football ma ormai non gliene importa piu’ nulla, si annoia, inizia a fantasticare, si prende delle sbronze assurde e viaggia qua e la’ senza meta. Un po’ e’ il curriculum vitae di ogni studente che si rispetti, ma quel ragazzo di nome Jack ha creato dalla sua asineria scolastica e dalla sua ribellione una corrente letteraria, un movimento spirituale, un’ispirazione, uno shock per il puritanesimo del dopoguerra.
Jack ha creato la Beat Generation. Era talmente avanti che l’ha creata ma ha dovuto aspettare anni prima di farlo sapere al mondo. (On the road, il manifesto, fu pubblicato solo nel 1957, ma fu scritto anni prima).
Sta di fatto che questo ragazzo manda a monte tutti i sogni di belle speranze della sua famiglia, tutto l’immaginario borghese che lo accompagnava fin da piccolo e fa un lungo viaggio da un angolo all’altro del continente americano, in autostop e in autobus. Si era convinto che per ribellarsi bisognasse vagabondare e proprio da questo pellegrinaggio della rivolta nasce il senso di jack per la scrittura.
Crea il Beat. Beat come battito, ritmo, battuta, beatitudine, e’ l’unita di misura del jazz. E’ musica ossessiva e anche improvvisazione creativa (tutta la sua scrittura si puo’ riassumere con quest’ultima definizione). Ma ha anche il senso di sconfitto, vinto, perduto dopo una vicenda finita nei peggiori dei modi. E anche quest’ ultima espressione e’ intessuta in ogni filo delle sue opere: la sconfitta del non arrivare mai a niente. “ La beat generation e’ un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo”, cosi’ aveva detto Kerouac. E di quella fine del mondo , tanto temuta e tanto sperata, tanto da potersi leggere “fine del viaggio” ne parla continuamente.
Ad un certo punto non basta piu’ niente a Jack : si imbarca con la marina, poi cambia, crea la beat generation e si forma intorno a lui una cricca di gente (e che gente, per citarne alcuni: Ferlinghetti, Ginsberg, Orlowsky e Neal Cassidy, definito “ultimo sacro idiota d’America”..) poi ha una crisi esistenziale che lo spinge prima in montagna a fare la guardia forestale e poi in Europa, a Parigi. Ma ci arriva fuori tempo massimo: non e’ piu’ la Parigi della lost generation, di Hemingway, di Gertrude Stein ,quella cosi’ incredibilmente raccontata anche nella Versione di Barney. Quindi torna in America , dove scrive i Sotterranei di San Francisco e I vagabondi del Dharma.
In quest’opera c’e’ tutto e il contrario di tutto. Kerouac era nel pieno della sua crisi mistico-religiosa (anche il nostro Jack e’ caduto nella tela della religione, quando le cose non vanno), rispolvera il suo cattolicesimo di fondo e gli da’ una mano di buddismo e zen, anche grazie a due amici del suo giro : William Emerson , poi entrato nell’ordine dei Domenicani e Philiph Lamantia, cattolico praticante.
Spiegare i Vagabondi del Dharma e’ abbastanza facile: Ray e il suo gruppo sono dei bodhisattva, ovvero gente che crede realmente nella carita’ e serena tranquillita’ e che, di conseguenza, vaga per il mondo (di solito pero’ battono palmo a palmo il triangolo New york, Citta’ del Messico e San Francisco) allo scopo di far girare un po’ piu’ velocemente la ruota del Dharma e ottenere meriti da futuro Buddha.
Le intenzioni di condurre una vita pia di studio e di ricerca ci sono tutte, ma la cosa divertente e’ che se si parla di ascesi c’e’ subito pronta l’alternativa dell’orgia, cosi’ come alla fuga e solitudine c’e’ immediatamente pronta una bevuta in compagnia. Nulla sarebbe senza l’immagine del mistico numero uno: Japhy, figlio dell’Oregon, un ragazzo che impara alla perfezione il cinese e giapponese  e che nel contempo ha interesse per il movimento anarchico. Alterna momenti di studio ascetico nella sua stanzetta a orge e bevute colossali, il tutto sembra in un perfetto equilibrio zen. Da lui si snodano le direttive spirituali da seguire : viaggi, letture, poesie , il tutto spiegato in modo tragicomicamente serio.
E’ un libro pieno di vagabondaggio, incontri piu’ o meno assurdi, bevute, dormite sui treni merci e sulle tiepide spiagge americane. Ma Kerouac fa anche di piu’, se possibile: regala scorci di quella che doveva essere la sua vita, tra viaggi e letture di poesie con le persone piu’ interessanti d’America. Ci troviamo infatti anche ad assistere ad una jam session letteraria, a San Francisco, nel quartiere cinese, tra il pubblico che urla “go, go, go!” per incitare i poeti , vino a fiumi e fini intellettuali che per capire quale sarebbe stato il prossimo avvenimento nella poesia americana frequentavano i bassifondi. ( e non viceversa, per una volta)
Kerouac ha descritto quindi se stesso: in perenne ricerca, anche infelice, alternanza tra una morale rigida e ferrea ad una morale licenziosa, la fuga, la ribellione. Ha rappresentato l’ America che dice di no, che cerca altre verita’, che aspira al diverso e alla rivolta, anche se rimane imprigionato in quella stessa rivolta.
Muore giovane, come accade spesso a chi ha troppo vissuto, nel 1969. Quasi dimenticato, perche’ la sua produzione letteraria era cessata, ma il maggio francese era ormai esploso da un anno e mezzo e stava spargendo i suoi tentacoli ovunque in Europa. Quei giovani , nelle loro tasche, avevano On the road. Neanche la morte ha fermato la beat generation.
LIBRO CONSIGLIATO A CHI: si trova sempre a proprio agio ovunque.
LIBRO DA ABBINARE: Dobbiamo calarci nella parte completamente, ritornare alla vita di Kerouac immaginandoci seduti al Greenwich Village di New York, al suo stesso tavolo (puntiamo in alto) e in compagnia di Cassidy e Allen Gisberg. Stiamo parlando del mondo, del prossimo viaggio in Giappone per poter vedere finalmente quel giardino zen di Kyoto che tanto puo’ fare per la nostra spiritualita’, ogni tanto qualcuno legge qualcosa della sua produzione e noi annuiamo con aria soddisfatta.
Probabilmente staremo bevendo una birra e fumando un sigaretta dietro l’altra per celare l’emozione di trovarsi al tavolo con i poeti che hanno disfatto e rifatto l’America, ma essendo noi per l’unione della cultura letteraria con quella materiale non possiamo esimerci dal mangiare qualcosa.
Puntiamo sulla cheesecake, dolce tipico i New York, con origine assai antica. Pare che risalga addirittura al 776 ac, quando nell’isola di Delos, venne offerto per la prima volta agli atleti. I romani , poi, esportano l’idea e piano piano si diffonde in tutta Europa. La versione americana, come sempre, esagera nei contenuti ma noi puntiamo proprio su quella.
Dobbiamo frantumare 250 gr di biscotti digestive e impastarli con zucchero di canna e 150 gr di burro sciolto. Questa formera’ la base per la nostra torta. A parte mescoliamo 2 uova intere, della vanillina, 100 gr di zucchero, 600 gr di formaggio tipo Philadelphia, del succo di limone, maizena, sale e 100 gr di panna. Si ricopre la nostra base e si inforna a 160 gradi per 30 minuti. Una volta sfornata e raffreddata la si ricopre di un mix di panna acida, zucchero, vanillina e salsa di fragola. Come si puo’ notare la ricetta originale americana e’ corposa e pesante, ma anche ribellarsi all’ordine costituito lo e’, quindi siamo in perfetto equilibrio zen.

1 commento:

  1. meraviglioso.....
    suggerisco a seguire la recensione del "pasto nudo" di burroughs.
    gabri pork

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